Anche i gesti più estremi e le parole più inafferrabili, ricollocati nella storia della persona, diventano comprensibili ed accessibili.
Questo è un concetto fondamentale richiamato con insistenza da Salomon Resnik, noto psicoterapeuta di scuola argentina e di formazione culturale europea. Del resto, lo stesso Boezio riconduceva alla necessità di vedere in ogni uomo un microcosmo a sé.

Libera.mente vuole pertanto approcciare il tema del disagio mentale e della malattia con una visione pluridisciplinare.
La psichiatria più aggiornata è convinta che tale approccio deve mirare a ciò che il paradigma della salute mentale comporta nei profili: biologico, psichico e ambientale e quindi nel risvolto sociale. Questo ultimo aspetto va inteso nel senso della liberazione dalla cultura manicomiale.

Ciò consente di entrare nelle espressioni e nei gesti più intensi per trovare un collegamento tra una vita disturbata e la nostra.
E’ necessario allora guardare con disponibilità nuova a ciò che possono consentire gli accostamenti con la letteratura, con il cinema, con la musica, con la pittura, il teatro, in un continuo esplorare di possibilità e percorsi che concorrono a leggere più compiutamente i comportamenti del disturbo psichico.

Certo che occorre preparare la società, ecco perché si parla di risposta ambientale, affinché una nuova cultura non consideri il disagiato psichico un “malato mentale”, infatti la persona non accetta questa collocazione e si rifiuta di riconoscere il proprio stato di disagio.

In questo modo, si perpetua un circuito vizioso: io non mi riconosco nel bisogno di aiuto, perché tu mi consideri malato mentale ed il mio stato di disagio aumenta aggravandosi nel tempo della mancata risposta e della non presa in cura.
Occorre quindi che cambi tale lettura, che prenda il sopravvento la cultura del bisogno di cura, senza alcuna etichetta, inteso come “bisogno normale”, nei confronti di “una patologia normale”. Non deve esistere la preoccupazione di essere allentati socialmente.

Il disagiato psichico non è un potenziale criminale, così come non lo è il cardiopatico, il diabetico o chi soffre di patologie debilitanti.
Allora: inclusione sociale e, per eccellenza, la pietra angolare di tale concetto diventa il lavoro. Non più lavoro inteso come supporto di terapia, ma come diritto al lavoro. Del resto, la pratica di questo diritto è molto spesso risolutrice. Le persone colpite da disagio mentale non sono improduttive. Ormai moltissimi giovani entrano nel mondo del lavoro e sono in grado di vivere autonomamente.